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2018/12/14

Il Duomo di Milano e Andrea Camilleri

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Dal Corriere della Sera: Intervista a Andrea Camilleri

«Mi permette di fare una cosa?». «Certo, maestro». Andrea Camilleri si sporge un poco dalla poltrona nella quale è seduto, allunga una mano e accarezza la mia guancia. Poi la fronte e finalmente arriva ai capelli. Sorride e dice: «Ho imparato a sentire le persone, da quando non posso più vederle. Cerco di dare corpo a una voce, modulandone le sfumature. Una voce profonda e bene impostata risponderà a una persona educata? Forse sì, forse no. E allora a volte sento l’urgenza di sfiorare i capelli o il viso di chi mi sta di fronte, alla ricerca di indizi».
Milano. Un sole rincagnato tra le nuvole. Un poco di vento e una sala d’albergo elegante, discreta, attraversata da uomini d’affari che sembrano invisibili e donne tutte uguali, tacco e tailleur scuro. Tutti bisbigliano, tutti paiono impegnati a fare qualcosa di importante. Seduto in quella poltrona, con la sua bizzarra coppola a quadri e con una boule dell’acqua calda, rosa, sulle ginocchia, Andrea Camilleri è un’isola di calore umano. Parla a voce altissima e allegra — una delle tante licenze che gli vengono dai 93 anni e da una cecità che indossa con un’eleganza letteraria, al pari di un Tiresia coltissimo e ironicamente stravagante.

Lei sembra un uomo felice. 

«Lo sono. Per molti motivi. Perché ho avuto una vita fortunata, perché ho campato di un lavoro che amo, perché ho amato tanto. Ma sa qual è una delle cose che più mi hanno reso felice?»

Quale?
«Ho fatto in tempo a scorgere i tratti del viso della mia nipotina di cinque anni, Matilda».
La bambina alla quale lei si racconta nella sua autobiografia Ora dimmi di te, uscita per Bompiani.
«Sì. Perché vede, quando uno è tanto vecchio come me e ha nipoti o pronipoti piccoli, affiora una vena di tristezza nel pensare che non potrai seguirne la crescita, le prime delusioni e le prime conquiste. E, soprattutto, non sai mai come verrai ricordato. Mi creda, mi tormentava il fatto che, dopo la mia morte, qualcuno mi potesse raccontare male, in modo infedele. Così mi sono messo a nudo con lei, svelandole tutto, anche le cose brutte del mio passato, anche gli errori».
Me ne dice uno?
«Per esempio, avrei potuto e dovuto dire un “no” più convinto al fascismo, ma a essere onesti ci sarebbe voluto un coraggio inumano. Ho detto no, ma tardi, dopo averci creduto come tutti. A guardarmi indietro ora ai miei occhi appaio come uno che ci è cascato e questo mi fa tanta rabbia».
Camilleri, lei è un narratore con una impressionante dimestichezza con la scrittura. Potrebbe comporre un romanzo in poco tempo, eppure in lei si avverte una rigorosa intransigenza verso se stesso. Come se non fosse mai soddisfatto.
«È molto vero. Ogni volta che mi infliggo la tortura di rileggere una cosa che ho scritto mi inquieto, mi dico “ma guarda, cialtrone, hai lasciato fuori questo, hai eluso quell’altro, non hai dato spessore a quell’altro ancora”. Che orrore rileggersi. Che orrore ripercorrere ciò che si è fatto».
E come fa?
«Semplice: non lascio tracce di me. Una volta finito un romanzo, butto via tutto. Appunti, stesure, correzioni, note di ispirazione. Voglio che non resti più nulla dello sforzo, nulla che possa ricordarmi un errore, una mancanza. Sa qual è una delle torture della mia vita? Quando un traduttore, poniamo greco, mi chiede di spiegargli un passaggio. Ora, questo è molto comprensibile e tutti quelli che conoscono i miei libri lo sanno. Però implica che io vada a rileggere una pagina delle mie. Madonna che pena!»
Lei scrive moltissimo.
«Sì. Perché a novantatré anni ho bisogno di fare cose, sentire gente, ridere. Ogni momento diventa preziosissimo. E poi voglio scrivere in mezzo alla caciara dei bambini, tra nipoti, pronipoti e amichetti dei nipoti. Mia moglie mi dice che non sono uno scrittore, bensì un corrispondente di guerra, perché scrivo in mezzo a strilli e risate. Ma come glielo posso spiegare che la mia scrittura nasce dal casino della vita?»
La solitudine la spaventa?
«La odio, la rifuggo, la combatto con il rumore e con le storie».
In che senso?
«Sono vecchio, cieco e ci sento ormai pure poco. Quelli come me si sentono doppiamente soli. E allora sa che faccio? Mi racconto storie. Abbozzo racconti e romanzi solo per me, che non pubblicherò mai e che distruggo una volta che mi hanno fatto compagnia. Mi invento situazioni, abbozzi di film, prendo un personaggio e gli stravolgo il destino, ne acchiappo un altro e mi diverto a vederlo stupito per la giravolta che gli impongo, nel mezzo della sua vita. Che sensazione di potenza che dà la scrittura. Se lo ricordi».
Mi racconta una di queste storie, cominciate e poi buttate via?
«Le racconto del romanzo che ho cominciato a scrivere e che non ho finito. Gli avevo dato pure un titolo, La desertificazione. Tutto è nato da una riflessione sul mondo che ci circonda. Sta diventando sempre più deserto, i ghiacci si sciolgono, il clima cambia perché ci sono parti del pianeta che hanno sete. E allora mi sono detto: che cosa succederebbe se questa desertificazione avvenisse nel cuore di una donna? Se, all’improvviso, i suoi sentimenti si seccassero e se i suoi desideri diventassero simili a terre aride?»
Mi sembra un’idea bellissima. Perché ha interrotto il romanzo?
«Potrei risponderle: perché non mi convinceva il punto di partenza. Oppure potrei dirle che ho avuto poco tempo. Ma le dirò la verità: l’ho interrotto perché era troppo difficile».
Poche cose sembrano difficili a uno scrittore così versatile.
«Eppure l’onestà con se stessi sta anche nel capire quando una cosa oltrepassa il proprio limite. No, quella era una storia troppo triste per il Camilleri di adesso, uno che vuole divertirsi, sentire la vita intorno».
Che cosa le manca, oggi?
«I colori. Mi manca non poter più vedere la sfumatura precisa del giorno che si fa sera, il rossore sul viso di una ragazza, mi mancano quei colori che compaiono all’improvviso e che si colgono con una fitta al cuore. Ho paura di perderne il ricordo: com’era quella nuance di violetto? mi chiedo. E in quale tinta sconfina il rosso scuro? Allora, dentro di me, in uno di quei momenti di auto-affabulazione, mi alleno a ricordare i colori, forse a comporre sfumature diverse. E sa dove me li ritrovo? Nei sogni. Faccio sogni coloratissimi, come non ne ho mai fatti quando ci vedevo bene».
Me ne racconta uno?
«Sono alla stazione di Milano, mi precipito al binario per prendere il treno ma non ci riesco, qualcosa mi blocca. Ma che cosa? Mi guardo: sono vestito da pagliaccio, con le scarpe grosse, il pigiama variopinto, non posso correre. Alzo lo sguardo e alla mia destra vedo un treno fermo. Ma è pieno di pagliacci colorati che si affacciano ai finestrini e mi urlano “vieni con noi, vieni con noi”. Allora, sgomento, mi volto a sinistra e scorgo un altro treno, pieno di passeggeri. Anche questi sono affacciati ai finestrini ma ridono, ridono, ridono».
Un sogno felliniano.
«Be’, ma in fondo una vita passata a baccagliare con Sciascia, Elvira Sellerio, Massimo Bontempelli e tanti altri, dovrà pur partorire qualcosa. Quando coltivi il sapere, questo cresce e non ti lascia mai solo. Chi è curioso, non soffre la solitudine. Io sono convinto che le vere grandi differenze sociali non siano economiche, anche se per carità queste ci sono e pesano. Penso che la frattura più profonda sia tra chi è capace di non essere da solo e tra chi non riesce a stare con gli altri».
Un messaggio di sottilissima umanità, il suo.
«Parlo così perché io sono stato fortunato. Sono stato accudito, innaffiato. E non parlo solo dei miei 61 anni di matrimonio. A “innaffiarti” è anche il tuo sangue, la tua terra, l’appartenenza a un mondo. Questo non è da tutti. In tanti si perdono e smarriscono il contatto con un’identità che, con gli anni e con le vicissitudini, può diventare rarefatta. Ma non va mai persa. Ci nutre, ci salva».
Come si arriva a sessantuno anni di matrimonio?
«Accettando il fatto che il matrimonio muta, per necessità e, aggiungo io, per fortuna. Se ci si cura a vicenda, se ci si “innaffia”, appunto, si giunge insieme a quel meraviglioso momento in cui l’altro “ti diventa caro”. E la sensazione che si prova è quella di appartenere a un solo corpo. Si finisce per somigliarsi, l’uno con l’altro. Che cosa ha a che fare questo con l’amore? Nulla. Tutto».
Che animale vorrebbe essere?
«Un gatto. Arrivista, egoista, egocentrico, a volte infido. Mi piacerebbe, anche solo per un giorno, vestire questi panni e sentire che cosa si prova a essere cattivi. Poi, lo so già, mi metterei a ridere e finirebbe tutto».
Si è accorto che siamo arrivati alla fine di questa conversazione senza mai nominare Montalbano?
«Non ce n’è stato bisogno. Lui ormai vive per conto suo e non ha bisogno di me».
Maestro, come vorrebbe essere ricordato?
«Come una persona perbene».